Gino Papuli, la «colonna Carloni» e la memoria dei «fatti di Pavlograd»

di Raffaello Pannacci

Gino Papuli (Padova 1921-Terni 2008) fu sottotenente di complemento nel 120° Reggimento artiglieria motorizzato e partecipò con tale unità alla guerra sul fronte orientale fra il novembre 1942 e l’aprile 1943. Di questa esperienza Papuli ha parlato dettagliatamente nelle sue memorie, pubblicate a distanza di decenni da quell’evento [1], anticipandola in forma stringata in uno dei volumi relativi al fronte russo curati da Giulio Bedeschi [2]. Nel febbraio 1943, dopo la ritirata delle fanterie e degli alpini dal Don, il suo reggimento fu protagonista della difesa di Pavlograd assieme ai resti del 6° Reggimento bersaglieri e ad altre unità raccogliticce. Tali reparti, unitamente a truppe tedesche stanziate nella città ucraina, ebbero l’ordine di tenere Pavlograd il più a lungo possibile, così da permettere ai resti dell’Armata italiana in Russia di sfilare poco a sud al riparo dagli attacchi delle forze sovietiche. La difesa di Pavlograd da parte delle unità italo-tedesche durò pochi giorni e si concluse con un ripiegamento tanto rapido quanto scontato, ma fu di vitale importanza ed evitò ai resti dell’Armir di subire ulteriori perdite dopo la ritirata dal Don, in un momento in cui i sovietici stavano dilagando nella zona fra Kursk, Belgorod e Kharkov [3].

Per certi versi, Gino Papuli si sentiva orgoglioso di aver partecipato a quell’impresa militare e dalle sue carte autografe emerge come egli non si capacitasse del perché quel particolare frangente della campagna di Russia – gli ultimi veri e propri combattimenti italiani in terra sovietica – fossero finiti nel dimenticatoio. Gli capitò di scriverlo più volte in anni relativamente recenti, nel tentativo di riportare quei fatti all’attenzione del grande pubblico. Nel 1993, in occasione dei 50 anni dalla fine della campagna di Russia, Papuli si rivolse alla Direzione di Uno mattina Rai, sottolineando come parlare dei fatti di Pavlograd avrebbe contribuito a invertire la diffusa credenza che, «terminata l’anabasi degli Alpini, nessun soldato italiano fosse più in linea» [4]. Papuli scrisse poi al giornalista Arrigo Petacco una lettera risentita, facendogli notare come il suo nuovo libro sulla campagna di Russia – frutto di un lavoro chiaramente non professionale [5] – ignorasse quasi completamente le drammatiche vicende delle fanterie italiane in Urss e contribuisse così a «diffondere un equivoco di cui sono soprattutto responsabili i mass-media poco informati: quello secondo cui la campagna di Russia sarebbe stata combattuta soltanto dagli Alpini» [6].

Due anni dopo l’ex ufficiale si rivolse ancora alla Rai, in questo caso alla Direzione di Rai Storia, per parlare dei fatti di Pavlograd e far presente come «certi vuoti dovrebbero essere colmati, prima che sia troppo tardi […]. Quando io ed i pochi altri reduci ancora viventi saremo scomparsi, con noi scomparirà senza appello ogni memoria delle gesta suddette» [7]. Papuli scrisse infine al giornalista televisivo Giovanni Minoli, allora direttore de La storia siamo noi, presentandosi come «uno dei pochi ex combattenti del fronte russo che siano in vita e non del tutto obnubilati» e ribandendo ancora una volta l’importanza e al contempo la misconoscenza dell’«impresa disperata» di Pavlograd, che ormai solo «le testimonianze orali» avrebbero potuto salvare dall’oblio definitivo [8]. Papuli parlò di questo fatto anche con Mario Rigoni Stern, uno dei più noti soldati italiani già al fronte russo, spiegandogli come l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito avesse dedicato ai fatti di Pavlograd pochissimo spazio nella sua relazione ufficiale sulla campagna di Russia [9], forse perché il comandante delle truppe italo-tedesche in quella piazza e in quella circostanza era stato l’allora colonnello Mario Carloni, in seguito divenuto generale nelle forze della Repubblica sociale italiana [10]. Vale la pena di riportare per intero la breve replica di Rigoni Stern:

Asiago, 9 gennaio 2003,
nevica… sessant’anni fa, a quest’ora, raddoppiavo le vedette sulla riva del Don…
Caro Papuli,
ha fatto bene [a] mandare quella sua lettera a La Stampa [11]; non sapevo che Carloni aveva poi aderito alla repubblica di Salò. Non gli era bastata la lezione del fronte Est? Trovo, però, che Carloni, nella pubblicazione ufficiale dell’Ufficio Storico-SME [12] è più volte citato, sia nel tempo CISR [13] che Armir; il fatto da lei raccontato si trova riportato a pag. 471 nella seconda edizione 1993, specificando, in nota, reparti e armamento. Ma la stessa pubblicazione al combattimento del 1° settembre 1942 (Kotovski), che distrusse [14] due battaglioni di alpini (il Vestone e il Valchiese del 6° [Reggimento] [15] – un battaglione di alpini fa 1200 uomini), dedica 2 (due) righe! Naia, si diceva noi veci. Ricambio cordiali saluti,
M. Rigoni Stern [16]

Con Mario Rigoni Stern, Papuli – per così dire – sfondava una porta aperta. Il già sergente maggiore degli alpini, infatti, giusto 6 mesi prima di scrivere questa lettera, aveva rilasciato un’intervista in cui si esprimeva molto chiaramente sulla voluta sovrastima da parte dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito delle forze sovietiche presenti al combattimento di Nikolaevka (26 gennaio 1943), consapevolmente accresciute rispetto alla realtà dei fatti al fine di conferire un tono più epico ed eroico alle gesta italiane: «L’ufficio storico bisogna prenderlo con le pinze perché ne ha dette di stupidaggini… L’ufficio storico lo conosco perché conoscevo chi ne era direttore, una volta» [17].

Che cosa c’è di vero e di esatto in quanto affermava Papuli circa i fatti di Pavlograd? Per prima cosa va chiarito, in effetti, che la relazione ufficiale stilata dall’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito nel 1977 dedica esattamente 20 righe e una breve nota a piè di pagina ai combattimenti attorno alla città ucraina, sottolineando peraltro come in quell’occasione le truppe italiane avessero prestato «l’ultimo concorso ai tedeschi sul fronte russo» [18]. Ciò non toglie che negli anni precedenti di Pavlograd si fosse parlato a più riprese quantomeno nell’ambito della pubblicistica militare. Nel 1953 comparve su «Rivista militare» (organo ufficiale dell’Esercito italiano) un articolo di un ufficiale della divisione Celere sulle vicende di tale grande unità nell’inverno 1942-43, che si dilungava sui fatti di Pavlograd [19]. Tre anni più tardi, invece, a dire la propria fu lo stesso Mario Carloni, ex comandante del 6° Reggimento bersaglieri prima e delle truppe italo-tedesche a Pavlograd poi, in un libro di memorie che parlava non poco della difesa della città ucraina nel febbraio 1943 [20].

È difficile dire quanto il transito di Carloni nella Republica sociale italiana abbia inciso sull’oblio della vicenda di Pavlograd. Papuli ne era convinto, così come lo era Giulio Bedeschi, firmatario della presentazione del suo libro, dove parlava di «una vicenda finora conosciuta solo per sommi capi e per accenni, credo proprio per la ragione che l’Autore indica […]. Ancora una volta resta dimostrato come la faziosità condizioni la Storia» [21]. Bedeschi scriveva ciò sicuramente nel 1990, poco prima di morire, quando al grande pubblico era ancora ignoto il suo passato di fascista repubblicano e di comandante di una brigata nera [22]. Nel suo caso la «faziosità» non aveva condizionato la storia o quantomeno non gli aveva impedito di essere il più noto memorialista di Russia e un rappresentante ufficiale del mondo alpino. In effetti è molto più probabile che all’oblio dei fatti di Pavlograd di cui si lamentava Papuli abbiano concorso motivi diversi, che proviamo ad individuare in questa sede.

I lavori che abbiamo menzionato, scritti da ufficiali che presero parte alle operazioni e che si ritrovarono a Pavlograd nel febbraio 1943, parlano ovviamente della missione della cosiddetta «colonna Carloni» e degli scontri con l’Armata rossa, ma fanno frequenti cenni pure alla lotta condotta dalle truppe italo-tedesche contro i partigiani sovietici in quel frangente [23]. Contestualmente alla guerra «regolare», le truppe dell’Asse portarono avanti una durissima repressione antipartigiana a Pavlograd e nei dintorni, che finì come sempre per coinvolgere anche civili innocenti. In città furono uccisi in combattimento, fucilati o impiccati circa 200 partigiani in 5 giorni, 45 dei quali il solo 13 febbraio, il primo giorno in cui le truppe di stanza si resero conto di avere contro una parte significativa della popolazione. Fra il 20 e il 21 febbraio la colonna Carloni effettuò rappresaglie per alcuni attacchi partigiani distruggendo completamente il paese di Snamenka e uccidendo tutta la popolazione di Gorjanovskoe, ad eccezione di donne, vecchi e bambini [24]. Più che la successiva appartenenza alla Repubblica sociale del comandante dell’omonima colonna (fatto certo non ignoto [25]), era questo il vero tabù nell’Italia post-bellica: la collaborazione prestata dal Regio esercito nell’occupazione dell’Urss da parte tedesca, con tutte le sue conseguenze in termini di sfruttamento del territorio e soprattutto di repressione antipartigiana, in alcuni casi feroce e non facilmente spiegabile ad un popolo, come quello italiano, che nel frattempo si era dotato di una Costituzione antifascista e la cui nuova identità ruotava proprio attorno alla memoria della guerra condotta contro i tedeschi dopo l’8 settembre 1943, certo non al loro fianco prima di quella data [26].

È difficile dire se Papuli si rendesse conto o meno delle difficoltà dell’Italia nel fare i conti col proprio passato, fascista e non. Eppure egli stesso sembrava avere coscienza dell’opportunità «politica» di certi silenzi della storia e della memoria della guerra italiana in Urss. Non pare casuale che, pur avendo assistito alla repressione italo-tedesca condotta a Pavlograd sotto gli ordini di Carloni, nelle sue memorie l’ufficiale abbia attribuito ai soli tedeschi le impiccagioni di partigiani tenute di fronte alla popolazione (affinché fungessero da deterrente) [27]. Analogamente, Papuli minimizzò le sanguinose rappresaglie del 20-21 febbraio – di cui abbiamo detto sopra – definendole «ulteriori sporadiche azioni antipartigiane svolte dai resti della colonna Carloni», che «non fanno storia» [28]. Si tratta di una forma di understatement abbastanza comune nelle modalità di elaborazione dell’esperienza bellica, che fa il paio con la rimozione di episodi spiacevoli, imbarazzanti, politicamente scorretti o criminosi. Nelle memorie italiane della guerra in Urss dominano i buoni rapporti con la popolazione civile e l’abisso morale e materiale che separava gli italiani dai tedeschi. Questa, col tempo, è divenuta una sorta di «verità di Stato» che, pur avendo alla base elementi concreti e veritieri, cela un quadro più sfumato, più complesso e sicuramente meno edificante [29].


[1] Gino Papuli, Il labirinto di ghiaccio. Echi della ritirata di Russia, Thyrus, Arrone 1991.

[2] Giulio Bedeschi (a cura di), Fronte russo: c’ero anch’io, Mursia, Milano 1983, Volume I, pp. 345-355.

[3] Francesco Valori, Gli Italiani in Russia. La campagna dello Csir e dell’Armir, Bietti, Milano 1967, pp. 375-380. Per un quadro generale vedi Chris Bellamy, Guerra assoluta. La Russia sovietica nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino 2010, pp. 641-643.

[4] Archivio di Stato di Terni (d’ora in poi Astr), Fondo «Gino Papuli», busta 51, fascicolo 175: lettera di Papuli del 4 maggio 1993.

[5] Vedi Arrigo Petacco, L’armata scomparsa. L’avventura degli italiani in Russia, Mondadori, Milano 1998.

[6] Astr, Fondo «Gino Papuli», busta 48, fascicolo 153: lettera di Papuli del 27 novembre 1998.

[7] Astr, Fondo «Gino Papuli», busta 48, fascicolo 153: lettera di Papuli del 3 febbraio 2000.

[8] Astr, Fondo «Gino Papuli», busta 48, fascicolo 153: lettera di Papuli del 7 novembre 2006.

[9] Vedi Costantino De Franceschi, Giorgio de Vecchi, Fabio Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941-1943), Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma 1993 (1a edizione 1977), p. 471.

[10] G. Papuli, Il labirinto di ghiaccio, cit., p. 98.

[11] Corsivo nostro, equivalente a sottolineatura nel testo originale.

[12] Acronimo di Stato maggiore dell’Esercito.

[13] Va ovviamente letto come Csir, ovvero Corpo di spedizione italiano in Russia.

[14] Corsivo nostro, equivalente a sottolineatura nel testo originale.

[15] Rigoni Stern allude al primo combattimento sostenuto dalle truppe alpine in terra sovietica, che si concluse con ingenti perdite e che lasciò una traccia duratura nella memoria dei superstiti. Su questo episodio vedi Kotovskij, 1 settembre 1942: il primo combattimento degli alpini in Russia – agosto 1942 – gennaio 1943 (frontedeldon.it)

[16] Astr, Fondo «Gino Papuli», busta 48, fascicolo 153: lettera di Rigoni Stern del 9 gennaio 2003.

[17] Giulio Milani, Storia di Mario. Mario Rigoni Stern e il suo mondo, Transeuropa, Massa 2008, p. 49.

[18] C. De Franceschi, G. de Vecchi, F. Mantovani, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo, cit., p. 471 e nota 1.

[19] Romolo Guercio, La 3a Divisione celere «Principe Amedeo Duca d’Aosta» nella seconda battaglia difensiva del Don (dicembre 1942-febbraio 1943), in «Rivista militare», anno IX (1953), fascicolo 6, pp. 669-696.

[20] Mario Carloni, La campagna di Russia, Longanesi, Milano 1971 (1a edizione 1956).

[21] G. Papuli, Il labirinto di ghiaccio, cit., p. 5.

[22] Vedi Benito Gramola, La 25a Brigata nera «A. Capanni» e il suo comandante Giulio Bedeschi. Storia di una ricerca, Cierre, Sommacampagna 2005.

[23] Vedi ancora R. Guercio, La 3a Divisione celere, cit., pp. 683-687 e M. Carloni, La campagna di Russia, cit., pp. 143-155. Si legga pure la cronaca – quasi una «diretta differita» – che di quegli eventi fece Cesco Tomaselli, Come una colonna di bersaglieri sbarrò ai russi la via del Nipro, in «Corriere della sera», 11 maggio 1943.

[24] Thomas Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 64-65; Raffaello Pannacci, L’occupazione italiana in Urss. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941-1943), Carocci, Roma 2023, pp. 100-101.

[25] Vedi quanto scrive anche Aldo Giambartolomei, Campagna di Russia 1942-1943. La guerra del 6° reggimento bersaglieri, in Memorie storiche militari 1983, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma 1984, pp. 739-740.

[26] Su questo tema rimandiamo a Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013.

[27] Vedi G. Papuli, Il labirinto di ghiaccio, cit., p. 82.

[28] Astr, Fondo «Gino Papuli», busta 6, fascicolo 15: scritto inedito di Papuli databile ai primi anni ’90.

[29] Vedi R. Pannacci, L’occupazione italiana in Urss, cit., pp. 17-19.

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