Le “date di dispersione” dei soldati nella campagna di Russia 1941-43

di Riccardo Bulgarelli

Alcune riflessioni generali

L’incertezza dei numeri relativi all’Italia nella Seconda guerra mondiale in generale e nella campagna di Russia in particolare è stata sottolineata da autorevoli storici e da studiosi di cose militari. Rispondere a domande come quanti parteciparono, quanti morirono e quanti furono i dispersi appare impossibile, se non facendolo in via approssimativa. Tale stato di cose ha più cause, sebbene le responsabilità maggiori vadano attribuite alle autorità militari nazionali. Secondo Giorgio Rochat vi fu da parte loro un’«insufficiente cura» verso il problema delle perdite nel corso del conflitto («nulla di paragonabile al grosso sforzo di documentazione prodotto per la Prima guerra mondiale»), così come si ebbe «disinteresse di opinione pubblica, governo e forze politiche, associazioni reducistiche e studiosi»[1]. Altri hanno sottolineato la crisi post-bellica delle Forze armate, «screditate, soggette ai processi di epurazione, drasticamente ridotte e demotivate», le quali «non si occuparono della cosa ed anni dopo, quando finalmente il problema fu affrontato, si accorsero che non esisteva più alcuna documentazione»[2].

A maggior ragione l’incertezza sussiste su quei dati che si riferiscono a circostanze già per loro natura vaghe e che avrebbero richiesto grande impegno e perseveranza per essere chiarite, senza peraltro alcuna garanzia di successo. Ci riferiamo alla sorte di quei militari che la Legge di guerra definisce «scomparsi per cause di guerra, dal comando, corpo, reparto o servizio»[3]: in altre parole, i dispersi. In casi simili la legge stessa prescriveva l’obbligo di redigere un «processo verbale di irreperibilità», che indicasse «le generalità e la qualità della persona scomparsa, nonché le circostanze, nelle quali la scomparsa è avvenuta», qualora «nei tre mesi successivi alla scomparsa, non sia stato possibile conoscere se egli sia tuttora in vita, né accertarne la morte». Aggiungeva la legge: «Copia del […] verbale […] è inviata […] al ministero […] e questo la trasmette, per la consegna alla famiglia interessata, al podestà del comune, ove la persona aveva il domicilio o l’ultima residenza»[4].

La documentazione

Per quanto ne sappiamo oggi, i verbali di irreperibilità giungevano ai comuni perché essi «potessero regolare la posizione di stato civile del militare»[5]. Non a caso se ne trovano numerose copie tra i documenti conservati nei «fascicoli caratteristici» dei singoli militari, oggi depositati presso gli archivi di Stato competenti. Tuttavia, abbiamo nota di un solo caso in cui il Ministero della Difesa, già nel 1954, ne inviò copie al comune interessato con la preghiera di passarne una alla famiglia[6]. Anzi, in molti casi gli archivi di Stato conservano copie di accorati appelli con cui i comuni sollecitavano i relativi distretti militari ad emettere i verbali di irreperibilità dei soldati in oggetto, perché la mancanza di questi documenti impediva la corresponsione dei previsti benefici economici alle famiglie dei dispersi. A queste ultime perveniva – forse non sempre – una comunicazione verbale della scomparsa, la quale, per i pochi e confusi dati che recava, contribuì spesso a mantenere vaga la consapevolezza della sorte occorsa al disperso (ad avvisare le famiglie erano i carabinieri locali o il podestà del comune, incaricati da un apposito «telegramma di Stato» del Ministero della Guerra).

La maggior parte delle famiglie, dunque, si macerò in una disperata e spesso infruttuosa ricerca di notizie. I familiari incapparono nei silenzi imbarazzati dei reduci, che a volte preferirono tacere sulla sorte dei loro commilitoni di cui si chiedeva loro notizia[7], e nelle reticenze delle autorità militari, che non sapevano o non volevano fornire un’esatta descrizione di quanto fosse successo, alimentando così una speranza illusoria. Le famiglie bussarono a tutte le porte possibili: alcune, ad esempio, si rivolsero al Vaticano o alla Croce rossa italiana; altre ricorsero persino a maghi e indovini, cadendo spesso nelle mani di speculatori. Solo pochissime disponevano dei mezzi economici necessari per seguire le tracce del proprio disperso e per ricostruirne le vicende, destreggiandosi tra varie difficoltà[8]. Alcune si organizzarono condividendo informazioni con altre fin dai primi mesi del 1943[9]. Ai familiari, in sostanza, spesso rimase solo la generica consapevolezza dell’avvenuta scomparsa del proprio caro al «fronte russo», contornata da rare e spesso confuse note raccolte da reduci testimoni delle vicende accadute. Quella consapevolezza, oltretutto, venne poi sfumando nei passaggi generazionali, i quali trasmisero anche l’angoscia del silenzio in cui era rimasta avvolta la sorte di padri, zii o nonni. Oggi, grazie a canali d’informazione prima inimmaginabili, abbiamo figli, nipoti o pronipoti di quei dispersi che riprendono una ricerca allora difficilissima, in prima persona o grazie all’ausilio di altri[10].

Le banche dati e gli eventi di guerra

Oggi è possibile accedere alla banca dati on-line dell’Unione nazionale italiana fra reduci di Russia (Unirr)[11], la quale fornisce, fra le altre cose, anche data e luogo del decesso dei militari caduti, che per i dispersi vale come data di dispersione. È disponibile sempre on-line la Banca dati dei caduti e dispersi nella Seconda guerra mondiale del Commissariato generale per le onoranze ai caduti presso il Ministero della Difesa (Onorcaduti), in cui compare anche la data di decesso o di dispersione per ogni militare caduto o disperso[12]. Molti considerano quella data una sorta di «reliquia»: attorno ad essa mettono a fuoco un luogo e uno spazio fisico, cercando di immaginare che cosa sia accaduto in quell’ultima giornata di vita certa del proprio caro. Quando essi, dopo aver letto di tutto, ricostruiscono pur approssimativamente quali furono i fatti specifici che vi capitarono, si commuovono nell’immaginare che quello è ciò che vide anche «lui» coi suoi occhi, ciò che soffrì nella sua carne, magari ciò che accompagnò le ultime emozioni che ebbe. Chi scrive ha compiuto questo stesso tipo di percorso.

Occorre dire subito che, mentre le date anteriori all’11 dicembre 1942 per le fanterie e al 15 gennaio 1943 per le truppe del Corpo d’armata alpino possono ragionevolmente indicare il giorno in cui del militare in oggetto si verificò il decesso o quando si persero le di lui tracce, quelle successive, che abbracciano un numero ben maggiore di caduti/dispersi, si perdono nell’incertezza. Il discrimine è dato da ciò che accadde in seguito all’avvio di due diverse offensive sovietiche dirette contro le truppe italiane: dicembre 1942 per quel che riguarda le divisioni di fanteria; gennaio 1943 per quanto concerne le divisioni del Corpo d’armata alpino. In entrambi i casi le truppe del Regio Esercito finirono con l’essere circondate e vennero costrette a lunghe, terribili e sanguinose ritirate volte ad evitare la totale distruzione[13]. Le conseguenze di quelle che, da un punto di vista sia operativo che umano, possono essere definite vere e proprie svolte si leggono nei numeri: dall’inizio della presenza italiana al fronte orientale (agosto 1941) all’11 dicembre 1942 i dati ufficiali riportano circa 5.000 perdite tra caduti e dispersi, mentre da quella data al successivo marzo 1943 la cifra, sicuramente arrotondata per difetto, arriva a circa 85.000[14].

Se il lettore di queste righe ha già accumulato varie letture sulla campagna di Russia, probabilmente ha anche affiancato all’immagine dell’immane tragedia dell’inverno 1942-43 quella del grande e progressivo caos in cui tutto si svolse, in specie a partire da quando la ritirata venne ordinata o divenne comunque inevitabile. Proprio per questo motivo va onestamente fatta una doverosa distinzione: da un lato vi fu il teatro di battaglie – più o meno cruente – al cui termine si recuperarono i cadaveri, se ne ricostruirono le possibili identità e se ne registrarono le generalità[15]; dall’altro vi furono reparti che combatterono inseguiti e pressati dal nemico, sempre meno organici, in continuo e faticoso movimento nelle terribili condizioni climatiche russe dell’inverno 1942-43, dove il corpo del compagno spesso non ebbe volto né mostrine di riconoscimento. Presso alcune unità, poi, il quadro fu ulteriormente complicato dal fatto che molti militari erano giunti al fronte da poco o pochissimo tempo, tanto che «mancava perfino la reciproca conoscenza fra comandanti e gregari» (come scrisse il generale Roberto Lerici, comandante la Divisione Torino, nel suo rapporto sulla ritirata)[16]. In uno scenario simile dovette essere molto difficile registrare il nome di chi venne ucciso, di chi fu mortalmente ferito o di chi lentamente si distaccò dal gruppo, ma dopo la battaglia venne anche un tempo in cui quasi tutti i sopravvissuti erano ancora in vita e avrebbero forse avuto qualche cosa da raccontare.

Parliamo, dunque, di un quadro generale molto complesso e articolato, che qui interessa evidenziare per far comprendere come la raccolta e la registrazione di informazioni sulle circostanze della scomparsa o dispersione abbia assunto, a campagna di Russia in corso, un valore assai relativo, che tale si mantenne dopo la conclusione della campagna e pure dopo la fine della guerra[17]. Stando alla già citata Legge di guerra[18], il verbale di irreperibilità doveva essere redatto dal «comando deposito» del reparto di appartenenza (il luogo di stanza del reparto in Italia) o dal centro di mobilitazione, vale a dire il distretto militare presso cui il soldato era stato arruolato. Questi enti, però, potevano produrre il verbale solo sulla base dei dati ricevuti dal comando del reparto di appartenenza del disperso, ovvero quello sul campo. La pratica, quindi, aveva diversi passaggi durante i quali era forte il rischio che i dati si sfilacciassero, andassero perduti nella distruzione di molti uffici militari a seguito della guerra – ormai “in casa” – o venissero disattesi da un’organizzazione militare che andava sgretolandosi per comprensibili motivi contingenti.

La determinazione della data di dispersione

Tralasciamo al momento il luogo in cui il militare scomparve, che nella maggior parte dei casi non fu indicato affatto o venne modificato nei vari passaggi oppure fu spesso liquidato con un generico «fronte russo»[19]. Concentriamoci, invece, sulla questione delle date di dispersione e cerchiamo di capirne il valore effettivo. La prima riflessione scaturisce dal fatto che alcune di queste date ricorrono abbondantemente per più militari, molto spesso dello stesso reparto. Il dato in sé non è incomprensibile, poiché è logico attendersi un alto numero di morti e di dispersi laddove gli scontri furono particolarmente cruenti. Ad una più attenta analisi, però, emerge curiosamente che molte di queste date si riferiscono a giorni in cui non risulta che il reparto del disperso abbia preso parte a violente battaglie o addirittura a giorni che seguono nel tempo la conclusione della ritirata di quello stesso reparto. Ovviamente, in guerra tutto può succedere, compresa la morte o la dispersione in giornate – per così dire – tranquille, così come è vero che molte date tra quelle in elenco si riferiscono alla morte del militare durante la prigionia nei campi sovietici, in giorni chiaramente successivi alla conclusione della ritirata (se non addirittura della campagna militare in sé)[20].

La nostra attenzione si è concentrata su due date emblematiche, ovvero il 19 dicembre 1942 e il 31 gennaio 1943. La prima viene indicata come momento di dispersione di 3.588 militari, tra cui troviamo 1.068 dei 1.263 fra dispersi e caduti del 3° Reggimento bersaglieri registrati in tutto il dicembre 1942. La seconda delle due abbraccia complessivamente 12.882 fra caduti e dispersi, di cui 1.590 del 1° Reggimento alpini e 2.368 del 2° Reggimento alpini (i due reggimenti insieme ne registrano 5.257 in tutto il mese di gennaio)[21]. Questo conteggio di esseri umani, caduti o dispersi che siano, sembrerebbe dirci che alle due date in oggetto i reparti ebbero scontri particolarmente violenti. Eppure, quelle date corrispondono a due giorni in cui i reparti in oggetto non ebbero alcun combattimento significativo. Il 19 dicembre 1942 il 3° Reggimento bersaglieri, ancora sostanzialmente integro, ricevette l’ordine di iniziare il ripiegamento nel corso del quale sarebbe stato distrutto, mentre al 31 gennaio 1943 i superstiti dei due reggimenti fucilieri della Divisione alpina Cuneense, dopo aver affrontato sanguinosissimi combattimenti, erano ormai fuori dalla sacca nella quale erano stati rinchiusi circa 15 giorni prima.

Si può concludere pertanto che, ai fini della determinazione della scomparsa, alla prima delle due date in oggetto il militare era presumibilmente ancora presente, mentre con la seconda si prendeva atto della sua assenza. Si tratta di due significati opposti, rilevabili da numeri indicati con la stessa etichetta e nello stesso elenco, ma senza alcuna specificazione che consenta di conoscerne il diverso significato, come invece accade, di rado ma significativamente, in alcuni fogli matricolari o verbali di irreperibilità. Ne forniamo alcuni esempi tratti dalla documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Alessandria. Nel foglio matricolare di un alpino del 4° Reggimento artiglieria (Figura 1) si legge che la dispersione risulta essersi verificata «durante il ripiegamento avvenuto dal 15 al 31 gennaio 1943», poi semplicemente riassunta nella data «31 gennaio».

Diversamente, nel foglio matricolare di un alpino del Battaglione Pieve di Teco (Figura 2) si legge che la dispersione è avvenuta «in seguito ad eventi bellici in Russia nel gennaio 1943», anche se nell’elenco della banca dati dell’Unirr il militare sarebbe stato in seguito indicato come disperso il 31 gennaio.

Nel verbale di irreperibilità di un alpino del Battaglione Ceva (Figura 3) si trova addirittura riportata una dicitura – da timbro – che fa riferimento ad un ampio lasso di tempo in cui sarebbe avvenuta la dispersione: «Scomparso […] in occasione di eventi bellici avvenuti nella seconda quindicina di Gennaio 1943 in Russia, deve considerarsi disperso in combattimento dal 31 gennaio 1943».

La seconda riflessione che portiamo prende spunto dalla Divisione di fanteria Torino, segnatamente da una raccolta dei dati di morte e di dispersione in funzione della data in cui queste furono registrate[22]. I dati si riferiscono ai caduti e ai dispersi appartenenti ai due Reggimenti di fanteria (81° e 82°) e a quello di artiglieria (52°) della divisione, nell’intervallo di tempo tra il 28 novembre 1942 e il 4 febbraio 1943. Ciascun reggimento è indicato con un colore diverso nell’elaborazione che proponiamo. Ne deriva un grafico che riporta in verticale il numero dei caduti/dispersi e in orizzontale le date in cui avvenne la registrazione del decesso o della scomparsa. L’intervallo temporale in questione corrisponde al periodo più tragico vissuto dalle divisioni di fanteria italiane, inclusa la Torino. Il lasso di tempo è scomposto in 8 segmenti che corrispondono ad altrettanti momenti caratterizzanti le vicende della divisione. Di ognuno di essi diamo sintetici cenni, mentre per un approfondimento sul tema rimandiamo alla nostra videoconferenza in tre puntate (Note da memorie e documenti sulla 52ª Divisione fanteria Torino). Nelle riflessioni che seguono il grafico va considerato nel suo insieme: i singoli reggimenti, che pure sono identificabili grazie ai diversi colori delle linee, non vengono separati.

Nel primo periodo preso in considerazione, dal 28 novembre al 16 dicembre 1942, la Torino non venne coinvolta in significativi combattimenti. Nonostante ciò, si osserva un picco di registrazioni il 30 novembre e una cospicua serie di picchi minori nei giorni precedenti il 16 dicembre. Il secondo periodo, invece, dal 16 al 19 dicembre, vide numerosi e talora consistenti attacchi sovietici alla divisione, ancora schierata lungo il Don. Due interi battaglioni di fucilieri, circa 1.800 uomini in tutto, subirono grosse perdite e numerosi furono i dispersi. Nonostante ciò, il numero dei registrati come tali è minimo. Il 19 dicembre, poi, l’unità ricevette l’ordine di iniziare il ripiegamento (nella notte fra il 19 e il 20, per l’esattezza). Il terzo, quarto e quinto periodo sono quelli in cui la divisione subì perdite molto elevate. Si tratta dei pesantissimi combattimenti che la Torino dovette sostenere prima mentre procedeva nella steppa in retroguardia all’intera colonna (20-21 dicembre), poi durante l’assedio di Arbusovka (22-24 dicembre), infine nella marcia compiuta dai sopravvissuti nella steppa innevata per raggiungere Čertkovo. Per avere un’idea della drammaticità di tali periodi, ci basti dire che la località di Arbusovka è nota nella memorialistica come la «valle della morte» e che il cammino verso Čertkovo è significativamente ricordato da alcuni come «la marcia degli allucinati»[23]. Nonostante ciò, il grafico si mantiene pressoché piatto, mostrandoci pochissime registrazioni di morti e di dispersi.

Il sesto lungo periodo preso in esame va dal 25 dicembre 1942 al 15 gennaio 1943, vale a dire dall’arrivo dei resti della Torino a Čertkovo (già posto tappa nelle retrovie, con stazione ferroviaria e magazzini vari) all’uscita dalla cittadina dopo circa 20 giorni di assedio. In questo lasso di tempo abbiamo un unico consistente picco di registrazioni concentrato al 31 dicembre. L’assedio non fu certo privo di combattimenti con morti e dispersi e nel piccolo e non attrezzato ospedale di Čertkovo morirono presumibilmente molti soldati (ancor di più furono i feriti abbandonati in loco). Quel picco, tuttavia, non trova alcuna logica spiegazione in relazione alla data. Il settimo periodo, ovvero le due notti a cavallo fra il 15 e il 16 e fra il 16 e il 17 gennaio 1943, corrisponde all’ennesima marcia nella neve per uscire dalla sacca e per raggiungere le linee tedesche, che rappresentavano la salvezza. I sovietici tentarono con ogni mezzo di annientare la colonna, per cui ci furono senz’altro morti e dispersi ma – è ragionevole pensare – non nell’entità che il grafico ci presenta. L’ottavo segmento preso in esame, infine, coincide con un periodo in cui i superstiti si trovavano ormai nelle retrovie delle linee tedesche (quelle italiane non esistevano più). Certamente ci furono morti e magari anche dispersi (come chi si attardò e venne raggiunto dall’avanzata sovietica), ma è improbabile che si siano avute tante perdite quante il grafico ce ne restituisce.

Che cosa dire in conclusione? Come abbiamo più volte sottolineato, le date di morte/dispersione vanno sempre considerate come linea di tendenza, ma è ormai evidente la loro concentrazione in giornate non coincidenti con quelle in cui è possibile ipotizzare le maggiori perdite tra i soldati della Divisione Torino. Si ha così conferma del fatto che le morti e le dispersioni – com’è comprensibile – non solo non furono registrate in concomitanza coi fatti bellici che le causarono, ma non vennero neanche ricondotte a quegli stessi fatti in seguito, quando si fece concretamente la registrazione. La data di dispersione, cioè, pare per lo più non avere un rapporto diretto con il giorno in cui si crearono le cause della dispersione stessa. Si può almeno ipotizzare una sorta di «prossimità», nella misura in cui la registrazione sarebbe avvenuta nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa? Le maggiori perdite della Torino si verificarono tra il 20 e il 25 dicembre 1942, per cui è lecito attendersi che le date di dispersione registrate il 31 dicembre siano in massima parte riferibili a quel lasso di tempo[24]. Ma come leggere allora il picco del 17 gennaio e poi quello del 31? Essi indicano ancora in prevalenza i caduti/dispersi del periodo 20-25 dicembre? Probabilmente sì, ma come distinguerli da quelli che di certo non mancarono durante l’uscita da Čertkovo o da quelli lasciati in quella cittadina perché impossibilitati a muoversi? Non abbiamo una risposta.

È curioso, infine, che tre dei quattro picchi di registrazioni coincidano con l’ultimo giorno del mese: 30 novembre, 31 dicembre e 31 gennaio. Salta alla mente che ai diari storici dei vari reparti – gli appositi registri sui quali si annotavano puntualmente i fatti salienti del giorno – era in genere allegato un rendiconto della forza combattente a fine mese, redatto come previsto dai regolamenti. Ciò fa propendere per l’idea che anche quei picchi non siano stati altro che una burocratica ottemperanza a quegli stessi regolamenti. Insomma, se cercavamo una conferma del complesso e articolato insieme di variabili che hanno contribuito a definire le date di dispersione dei militari italiani in Russia, l’abbiamo trovata.

Le lettere a casa come discriminante

Un’altra conferma della correttezza assai relativa del sistema di datazione è emersa nel corso di ricerche su vicende di singoli militari. In alcune occasioni, infatti, sono stati rinvenuti carteggi che mostrano come le date di dispersione di alcuni soldati siano strettamente legate ai dati da loro stessi forniti in precedenza nelle lettere inviate alle famiglie in patria. In sostanza, appare chiaro che gli organi che la Legge di guerra preponeva alla redazione del verbale di irreperibilità del soldato, quando non erano in possesso di sufficienti elementi per compilarlo, chiedessero alle rispettive famiglie l’ultima lettera ricevuta, adottando poi la data di quella come data di dispersione. Questo accadde sia immediatamente dopo il rientro in Italia dei reduci sia nel prosieguo della guerra (addirittura anche dopo la sua conclusione). Il 23 maggio 1943 in risposta alla richiesta di un «comando deposito», la stazione dei Carabinieri reali competente per territorio inviò l’esito di informazioni raccolte presso i familiari di un militare di cui non era nota la sorte, da cui emerge che dal 9 gennaio 1943 il militare «non ha dato notizie di sé alla famiglia» (Figura 4).

Alla stessa data del 9 gennaio, sul foglio matricolare del soldato in oggetto compare la voce «disperso nel fatto d’arme [sic!] sul fronte Russo» (Figura 5).

Nel settembre 1949 i familiari di un altro militare appartenente al 1° Reggimento alpini, i quali non erano in possesso del «certificato di irreperibilità» del congiunto, rilasciarono una dichiarazione in base alla quale il soldato «ha dato sue ultime notizie» il 9 gennaio 1943 (Figura 6). Il certificato era necessario «perché la famiglia possa beneficiare degli assegni spettanti ai congiunti dei Presenti alle Bandiere e per pensione»[25].

Il verbale conseguentemente emesso dal distretto militare locale, non a caso, riporta come data di dispersione proprio il 9 gennaio 1943 (Figura 7)[26].

Analogamente, nel 1947 il Distretto militare di Lecce rilasciò un verbale di irreperibilità (Figura 8) che riguardava un artigliere del 52° Reggimento. Il documento certificava che il soldato «dal 14 dicembre 1942 non dà notizie di sé» (alla propria famiglia, si intende). La data 14 dicembre 1942 sta ad indicare la dispersione del medesimo militare nell’elenco dei caduti della banca dati dell’Unirr.

In quest’ultimo caso, in risposta alle perplessità di un familiare, fu lo stesso Ministero della Difesa a chiarire l’utilizzo di informazioni fornite dalla famiglia:

In esito a quanto chiesto con la e-mail si invia, in allegato, l’estratto, in formato elettronico, del fascicolo del suo congiunto, custodito presso questo Commissariato Generale.
Al fine di chiarire i dubbi da Lei espressi si informa che il verbale di irreperibilità, inviato già a suo tempo da questo Commissariato Generale e redatto il 28 febbraio del 1947 dall’allora Distretto Militare di Savona, è stato compilato, presumibilmente, tenendo conto dell’ultima data certa avuta sull’esistenza in vita del suo congiunto, notizia questa fornita dalla famiglia.[27]

Si consideri pure che, in quanto «prove documentali», le lettere non furono mai restituite alle famiglie. La loro conservazione agli atti, tuttavia, ha avuto vicende quantomeno alterne, come testimonia il caso dei 16 sacchi di lettere, scritte alle famiglie da soldati poi risultati essere caduti o dispersi in Russia, che Nuto Revelli recuperò fortuitamente dopo che un distretto militare le aveva destinate al macero[28].


[1] Giorgio Rochat, Le perdite italiane nella Seconda guerra mondiale, in «Storia militare», anno III (1995), n. 27, p. 51.

[2] Carlo Vicentini-Paolo Resta, Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia, a cura dell’Unirr, Cassano Magnago 1995, p. 18.

[3] La «legge di guerra», che disciplina la conduzione della guerra stessa (una volta dichiarata), è quella approvata col Regio decreto 1415 dell’8 luglio 1938, peraltro ancora in vigore perché mai abrogata.

[4] I virgolettati sono tratti dall’articolo 124 della legge.

[5] Così è scritto, ad esempio, nella lettera di accompagnamento alla trasmissione del verbale di irreperibilità destinata al comune di residenza di mio zio, disperso durante la campagna di Russia.

[6] Lo si specifica nella relativa lettera di accompagnamento fornitaci dalla famiglia Rebaudengo-Rìgano.

[7] Così Giorgio Rulfi, alpino del Battaglione Monte Cervino, in un’intervista rilasciata all’autore il 1° ottobre 2017.

[8] Ci è nota nei dettagli la vicenda di un ingegnere romano alla ricerca del figlio, ufficiale subalterno nel 52° Reggimento artiglieria, di cui rimangono tracce nell’Archivio arcivescovile di Torino, Fondo Italo Ruffino.

[9] Vedi Eugenio Negro, Giuseppe Micheli e l’Alleanza familiare per i dispersi e i prigionieri in Russia, Tra le righe libri, Lucca 2021. L’autore, il 25 febbraio 2022, ha tenuto per il gruppo Fronte del Don una videoconferenza dal titolo “Una risposta all’angoscia del silenzio: l’”Alleanza familiare per i dispersi e i prigionieri in Russia“.

[10] In numerose pagine Facebook alcuni volenterosi fungono da intermediari tra i familiari che chiedono lumi e le banche dati cui faremo riferimento fra poco.

[11] Vedi Sito Unirr: Ricerca dei caduti (consultato l’ultima volta il 9 novembre 2023). Da qualche tempo a questa parte l’accesso alla consultazione è riservato ai soli soci dell’Unirr.

[12] Vedi Sito Ministero della Difesa: Banca Dati dei Caduti e Dispersi 2ª guerra Mondiale (consultato l’ultima volta il 9 novembre 2023). Il nome Onorcaduti è stato di recente mutato in Ufficio per la tutela della cultura e della memoria della Difesa.

[13] Più esattamente, le operazioni di logoramento contro le fanterie italiane iniziarono l’11 dicembre, seguite il giorno 16 dal vero e proprio attacco in massa. Inoltre, benché la ritirata più nota continui ad essere quella degli alpini, se ne verificarono in quei mesi altre tre.

[14] Ugo Leone (a cura di), Le operazioni del Csir e dell’Armir dal giugno 1941 all’ottobre 1942, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Roma 1947, pp. 196-197 e allegato 5 (la cifra è riportata da C. Vicentini-P. Resta, Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia, cit., p. 20).

[15] Nel corso di una delle tante ricerche di militari italiani caduti mi è capitato rintracciare – caso unico tra tutti quelli finora studiati – un solo «processo verbale di constatazione di morte e di identificazione di salma», riferito però ad un militare caduto sul fronte greco-albanese nel marzo 1941.

[16] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (Aussme), N/1-11, busta 883, diario storico del Comando Divisione Torino, gennaio-febbraio 1943, allegato 6: Alcune considerazioni (28 gennaio 1943), punto 8 per la citazione.

[17] L’unica significativa novità in tal senso si verificò negli anni ’90, con l’arrivo dall’Urss di registri contenenti i nominativi di militari italiani deceduti nei campi di prigionia sovietici.

[18] Vedi sopra le note 3-4, in tal caso articolo 124, comma C.

[19] È il caso di mio zio, per il quale il verbale del comando di reparto in Russia indicava esplicitamente la località di dispersione, sostituita nei successivi passaggi dalla vaga dicitura «fronte russo».

[20] Dei 65.000 nominativi presenti negli elenchi sovietici, consegnati alle autorità italiane a partire dal 1992, 38.000 appartengono a militari morti nei campi; 20.650 di loro sono stati identificati, il che ha permesso di aggiornare i dati che prima indicavano la scomparsa (Maria Teresa Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Il Mulino, Bologna 2003, p. 322).

[21] I dati numerici sono ricavati dalla banca dati dell’Unirr di cui sopra.

[22] Devo alla gentilezza di Tamara Mereu l’elaborazione di questi dati.

[23] Alfredo Luciano Catalani, Garbusov & dintorni, Cultura, Firenze [1979?], intitola un intero capitolo a Garbusov [Arbusovka]: valle della morte.

[24] Un altro interrogativo, che però esula dall’argomento di questo articolo, riguarda l’attendibilità della data del 31 dicembre 1942, un frangente in cui la Torino era assediata a Čertkovo. Nonostante le condizioni materiali di vita, esistette un ufficio qualsiasi che raccogliesse e registrasse i nominativi di presenti e assenti? Oppure in qualche modo ci furono appelli i cui dati furono ricondotti solo in seguito alla data in oggetto?

[25] Due anni prima, non a caso, il sindaco del paese aveva sollecitato il distretto militare locale ad emettere il verbale, così che la famiglia potesse dar corso alla pratica.

[26] Che i due documenti si riferiscano allo stesso militare è confermato dal numero di matricola che vi compare, il 9839.

[27] Gli ultimi due documenti provengono da carte private di famiglia che ci è stato gentilmente concesso di consultare.

[28] L’autore, già ufficiale subalterno degli alpini in Russia, ne parla nella prefazione al suo L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino 1989, pp. XXVI-XXVIII.

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