Breve cronistoria della campagna italiana di Russia

A che cosa ci si riferisce di norma quando si parla di «campagna italiana di Russia»? Con tale locuzione si intende definire gli eventi militari che videro coinvolte le Forze armate italiane sul suolo sovietico fra l’estate 1941 e la primavera 1943, in una guerra d’aggressione condotta dalla Germania nazista che terminò con la disfatta degli invasori, nello specifico con esiti disastrosi per le unità italiane, che nell’inverno 1942-43 persero una parte veramente importante degli uomini, dei mezzi e delle armi di cui disponevano. In questa sezione del sito, Fronte del Don fornisce al visitatore una breve storia politico-militare della guerra condotta dall’Italia contro l’Unione sovietica. Lo scritto spiega come gli italiani siano giunti a quella guerra, quali siano stati i principali eventi sui campi di battaglia e come tale specifica vicenda – quella dell’Italia fascista in Urss – si raccordi al quadro più ampio della guerra sul fronte orientale e della Seconda guerra mondiale in generale.


«Operazione Barbarossa» è il nome con cui ci si riferisce all’attacco sferrato dalla Germania nazista all’Urss il 22 giugno 1941. Si tratta di una guerra che ha radici lontane e motivazioni sia politiche che soprattutto economiche. Già alla fine del 1940 i tedeschi, ormai in lotta da un anno e più, hanno bisogno di ulteriori risorse alimentari ed energetiche per condurre una guerra che si sta rivelando più lunga del previsto. Il piano, approntato entro la primavera 1941, prevede di invadere il territorio sovietico e di prendere quelle risorse con la forza. L’Italia fascista, da anni primo partner della Germania, non viene messa al corrente dell’imminente invasione, ma già dall’aprile-maggio di quell’anno i vertici politico-militari a Roma sono consapevoli delle mire germaniche e del progressivo deteriorarsi dei rapporti fra Berlino e Mosca. Gli italiani si inseriscono nel piano tedesco proseguendo sulla linea di quella che la storiografia militare ha denominato la «guerra subalterna», vale a dire una strategia che prevede di affiancare le forze italiane a quelle tedesche su pressoché tutti i fronti di guerra, come una sorta di «azionista di minoranza».

Varie ragioni consigliano Mussolini di non restare estraneo allo scontro che si profila all’orizzonte. Innanzitutto, è radicata anche in Italia l’idea che il conflitto sia relativamente facile e che terminerà presto in favore della Germania. L’Urss, infatti, è ritenuta militarmente inefficiente per una serie di motivi più o meno validi, fra cui le grandi purghe staliniane, che hanno profondamente colpito le forze armate. I risultati ottenuti dai sovietici nella guerra d’inverno contro la Finlandia (1939-40), inizialmente imbarazzanti per l’inferiorità numerica nemica, hanno confermato agli occhi del mondo questa tesi. In secondo luogo, i vertici italiani ritengono che un contributo militare in Urss, per quanto modesto, possa convincere i tedeschi a impegnare maggiori risorse ed energie in Africa settentrionale, evitando soprattutto che essi firmino una pace con la Gran Bretagna prima che l’Italia acquisisca vantaggi territoriali in quel teatro bellico. Inoltre, anche per un discorso di propaganda interna, l’Italia – la nazione antesignana della lotta al bolscevismo – non può non prendere parte alla guerra in cui questo riceverà presumibilmente il colpo mortale. Da ultimo, alle motivazioni militari e politico-ideologiche vanno affiancate le considerazioni di carattere economico, che sono un fattore determinante per la decisione di appoggiare i tedeschi anche in questo teatro della Seconda guerra mondiale.

I servizi d’informazione italiani raccolgono notizie sull’Urss e sulla sua economia già da prima del 1941. I vertici politico-militari manifestano presto il loro interesse per le risorse teoricamente infinite di cui dispone l’Unione sovietica in fatto di cereali, bestiame, metalli, minerali vari, carbone e petrolio. In un solo colpo, la conquista dei territori sovietici costituirebbe la base logistica per sconfiggere definitivamente la Gran Bretagna (colpendo i suoi possedimenti in Medio oriente) e la base economica grazie alla quale proseguire la guerra e vivere la successiva pace. La questione economica diventa anche una carta da giocare sul «mercato interno», nella misura in cui la propaganda politica fa balenare agli occhi degli italiani la prospettiva di un generale miglioramento delle condizioni di vita della popolazione proprio grazie ai vantaggi della guerra combattuta in Urss, un territorio dal quale dovrebbero affluire cibo e materie prime. La partecipazione italiana al conflitto sul fronte orientale, insomma, si configura per certi versi come un investimento a breve e a lungo termine, in specie se si considera che tedeschi e italiani ritengono in quel momento che l’Urss uscirà abbastanza rapidamente sconfitta da quel mastodontico scontro.


Il 30 maggio 1941, in considerazione degli ormai probabili sviluppi della situazione fra Germania e Urss, Mussolini ordina allo Stato maggiore generale italiano di studiare la preparazione di un corpo di spedizione da inviare al fronte orientale al seguito della Wehrmacht, il quale è pronto a partire l’11 luglio seguente. Al contempo, mentre le prime truppe iniziano l’afflusso al fronte, i vertici italiani prendono già in considerazione l’ipotesi di un ampliamento del corpo di spedizione (Mussolini fa presente ai tedeschi da subito questa sua volontà). Il contingente approntato per la partecipazione alla guerra all’est viene denominato Csir, ovvero Corpo di spedizione italiano in Russia. Si tratta di un Corpo d’armata composto da tre divisioni di fanteria e dai relativi servizi. Le unità che vanno a comporlo sono le due divisioni di fanteria autotrasportabile Pasubio e Torino e la divisione celere «Principe Amedeo Duca d’Aosta». Il Corpo d’armata raggiunge i 62.000 effettivi circa: ben poca cosa rispetto all’enormità delle forze in campo sul fronte orientale o anche solo alle due armate del Regio esercito allora presenti in Grecia, ma si tratta di truppe scelte e dotate di mezzi non trascurabili, che dovrebbero far ben figurare l’Italia al fianco dei tedeschi.

Da un punto di vista operativo-logistico e in quanto a dotazione di servizi e di unità aggregate (reparti del genio, artiglierie, velivoli ecc.), il Csir ha più la struttura e la consistenza di una piccola armata che non quella di un solo Corpo d’armata. Il corpo è dotato di un parco automezzi davvero notevole in rapporto alle disponibilità dell’esercito, anche se comunque insufficiente per le necessità delle truppe. Rientra nell’organico del Csir anche un corpo aereo con velivoli da caccia e da ricognizione. Dopo un lungo e difficoltoso trasferimento attraverso l’Europa orientale, le unità italiane hanno modo di giungere sui campi di battaglia fra la fine di luglio e l’inizio di agosto 1941. In quelle 4-5 settimane trascorse dall’avvio dell’Operazione Barbarossa i sovietici hanno avuto perdite umane e materiali incalcolabili e difficilmente ripianabili. Su quasi tutto il lunghissimo fronte che va dal Mar Nero al Mar Baltico, l’Armata rossa si è ritirata rapidamente, a volte in relativo ordine, a volte disfacendosi completamente. Confermando i pronostici nemici, la situazione dei sovietici appare talmente compromessa che gli stessi soldati italiani e i loro comandi si chiedono se avranno il tempo di dare un sensibile contributo alla lotta contro il bolscevismo.

Il Csir è aggregato all’11a Armata tedesca (in seguito alla 1a Armata corazzata, poi alla 17a Armata) e viene schierato sul settore meridionale del fronte orientale. Esso combatte alle sue dipendenze in Ucraina, ricevendo il battesimo del fuoco verso la metà di agosto. Operando in autonomia o in collaborazione con altre grandi unità dell’Esercito tedesco di terra, il corpo italiano sostiene diversi combattimenti vittoriosi, guadagnando anche il plauso degli alti comandi germanici. In settembre le divisioni italiane hanno scontri sul fiume Dnepr e nella città di Petrikovka, nel quadro della mastodontica battaglia ingaggiata dai tedeschi per la presa di Kiev. Alla metà di ottobre il Csir inizia ad operare in una zona compresa fra le rive occidentali del Mar Nero e il bacino del fiume Donec. In quel mese e poi in novembre gli italiani entrano combattendo nelle città di Gorlovka, di Nikitovka e soprattutto di Stalino (oggi Doneck), che diverrà presto uno dei maggiori centri delle loro retrovie. Ai primi di novembre è occupata anche la città di Rykovo (oggi Enakievo), uno dei luoghi in cui la presenza italiana sarà più marcata. In dicembre le truppe affrontano l’ultimo ciclo operativo del 1941, combattendo alle porte della città di Khazepetovka nella prima metà del mese e respingendo l’attacco dell’Armata rossa sferrato fra il 25 e il 30 dicembre, in quella che la letteratura militare definisce convenzionalemente «battaglia di natale».

Il sopraggiunto inverno e la necessità di controllare il ritorno dei sovietici in vari punti del fronte rendono inevitabile l’arresto di tutte le unità sulle posizioni raggiunte, facendo sì che la natura della lotta dell’Asse muti da guerra di movimento a guerra di posizione. Le unità in linea, incluso il Csir, iniziano a radicarsi nel territorio: lo sfruttamento delle risorse locali si fa più intenso e la risistemazione delle retrovie inizia a dare un volto diverso alle zone occupate. Nel gennaio 1942 i tedeschi, già impantanatisi di fronte a Mosca nel mese precedente, hanno il fronte sfondato in più punti, a partire da Izjum. In tale settore le forze italiane ricevono il compito di coadiuvare l’alleato nel contenere e respingere i sovietici, evitando che i reparti dell’Armata rossa raggiungano Pavlograd, precedentemente conquistata. Pur in una situazione ambientale avversa e sebbene molto provate, le fanterie italiane contengono gli attacchi nemici in vari punti. Fra gennaio e aprile 1942 il Csir viene notevolmente rinforzato con unità di artiglieria e di bersaglieri e con reparti alpini adatti alla lotta in ambiente invernale. In maggio alcune unità prendono parte a intensi scontri presso Klinovyj e Barvenkovo, nell’ambito della grande battaglia ingaggiata dai tedeschi per la conquista di Kharkov, che si conclude in giugno con perdite di nuovo disastrose per l’Armata rossa.

All’inizio dell’Operazione Barbarossa e fino alla fine del 1941, Hitler e l’Alto comando tedesco hanno creduto che la presa di Mosca e di Leningrado avrebbe determinato l’abbattimento del potere bolscevico. Il sostanziale fallimento nel tentativo di occupare le due città provoca una revisione della strategia globale sul fronte orientale. L’inaspettata resistenza del sistema politico-militare sovietico e il conseguente prolungarsi del conflitto impongono di tentare di abbattere il bolscevismo in modo diverso e nel contempo di puntare direttamente verso il cuore delle risorse granarie del Kuban e di quelle petrolifere del Caucaso. Lo scopo è prendere possesso dei grandi siti estrattivi di Majkop, di Groznyi e soprattutto di Baku, sul Mar Caspio, il che dovrebbe porre rimedio alla grave mancanza di carburanti da parte tedesca. Le operazioni successive, attuate fra il giugno e il luglio 1942, in concomitanza con la caduta della fondamentale piazzaforte sovietica di Sebastopoli (in Crimea), sono volte al raggiungimento del fiume Volga e della zona prospiciente i rilievi del Caucaso. Fra il Don e il Volga, fra Voronež e Stalingrado, la Wehrmacht farà perno per volgersi verso sud, in direzione del Caucaso.

In quei mesi le unità sovietiche, rincorse nella steppa dai reparti corazzati tedeschi, si ritirano per centinaia di chilometri verso est e danno l’impressione di un cedimento generale come nei primi mesi della guerra all’est, almeno limitatamente al settore meridionale del fronte, dove si trovano i reparti italiani. Tuttavia, già fra agosto e i primi di settembre alcuni avvenimenti mutano ulteriormente il corso della guerra al fronte orientale. Nonostante i notevoli successi iniziali, l’avanzata sul Caucaso si rivela assai più difficile del previsto e l’obiettivo Stalingrado, importante anche per il controllo del traffico sul fiume Volga e per le fabbriche di armamenti presenti in zona, inizia a crescere d’importanza, pure per la portata simbolica di una sua eventuale caduta. Questo nuovo obiettivo storna notevoli forze verso la grande città e divide in due grossi sottogruppi tutti i reparti dell’Asse operanti nel settore meridionale del lunghissimo fronte orientale. In quelle prime settimane estive il Csir è ancora impegnato in alcuni scontri in avanzata nel bacino del fiume Mius, fra Krasnyj Luč e la grande città di Vorošilovgrad (oggi Luhansk), nelle quali gli italiani entrano verso la metà di luglio 1942. In tale contesto si situa l’arrivo in Urss dell’Armir, l’Armata italiana in Russia, operativa dal 9 luglio 1942 (sebbene ancora in afflusso al fronte e sparpagliata nei vasti territori controllati dall’Asse).

Nel complesso, il primo anno di guerra degli italiani in Urss – quello in cui il solo Csir combatte al fronte – sottolinea luci e ombre dei reparti delle Regie forze armate in quello specifico teatro bellico. Gli italiani si battono generalmente bene e i comandi tedeschi fanno affidamento su di loro in molteplici situazioni, richiedendo uno sforzo che per i primi è talvolta eccessivo, considerando i mezzi di cui dispongono. Il parco automezzi non riesce a sostenere i movimenti richiesti al Csir, le cui truppe marciano spessissimo a piedi e sono a volte costrette a rincorrere i tedeschi. Il corpo combatte al limite delle proprie possibilità, cercando di adattarsi ad uno scenario da guerra di movimento per il quale non è stato concepito. La logistica funziona a stento, sia per alcune oggettive carenze dell’organizzazione italiana sia per la sfida costituita dalle grandi distanze, dalla generale carenza di carburanti e infine anche dall’inverno russo. Al di là di ciò, il Csir ha modo di partecipare alle grandi avanzate dell’estate-autunno 1941, combatte una guerra per lo più offensiva ed è oggetto, proprio per questo, di esaltazione da parte della stampa di regime, che ne narra le imprese alla popolazione sottacendo le grandi difficoltà dovute al freddo e la palese battuta d’arresto tedesca di fronte a Mosca alla fine del 1941.


Come già detto, sin dalle prime battute dell’Operazione Barbarossa è prevista la presenza in Urss di almeno un altro corpo d’armata italiano da affiancare al Csir. L’invio è al vaglio almeno a partire dal 28 giugno 1941 e diviene praticamente certo meno di due mesi dopo. I vertici politico-militari italiani studiano concretamente questa possibilità e fanno presente ai tedeschi a più riprese la volontà di accrescere il proprio impegno al fronte russo. Nel corso dei mesi il progetto di ampliamento del corpo di spedizione determina l’invio di un’armata con relativi comando e servizi, che conterà tre corpi d’armata, incluso il Csir già al fronte. Il comandante di quest’ultimo, generale Giovanni Messe, già dalle prime settimane di guerra ha fatto presente che qualsiasi altra eventuale unità da inviare in Urss dovrà essere motorizzata: in caso contrario, si dovrebbe rinunciare al suo impiego in un fronte in cui la possibilità di muovere i reparti con mezzi propri è fondamentale. Quando nell’aprile 1942 viene a sapere che un’intera armata opererà presto in quello scacchiere, Messe cerca di dissuadere Mussolini da un simile progetto. Stando alle sue parole, Mussolini, convinto della vittoria tedesca contro l’Urss, afferma che al tavolo della pace gli oltre 200.000 uomini dell’Armir avranno un peso maggiore di quelli del solo Csir.

Nella primavera 1942, dunque, il Comando supremo e i vertici del Regio esercito lavorano per dotare altre truppe dell’occorrente per prendere parte alle operazioni. Pur nell’impossibillità oggettiva di moltiplicare per tre il livello qualitativo del Csir, lo sforzo fatto per l’approntamento di un’armata è davvero notevole, se si considera che l’Italia è a corto di materie prime, di armamenti e di equipaggiamento bellico in generale. Oltre a ciò, come alcuni fanno già allora notare, determinate unità militari e soprattutto le varie artiglierie di cui l’Armir viene dotata sarebbero ben più utili in Africa settentrionale che non nella steppa russa. L’Armir giunge scaglionata al fronte nel corso delle settimane fra luglio e agosto 1942. Col suo arrivo in zona di operazioni, il Csir cessa di dipendere dai comandi tedeschi e viene inglobato in quella che, una volta ricevuti anche reparti tedeschi da inframezzare ai propri, viene propriamente definita 8a Armata italiana. Il cospicuo contingente si compone di tre diversi corpi d’armata, più unità direttamente dipendenti e servizi relativi. Dall’Italia giungono il II Corpo d’armata, sulle tre divisioni di fanteria Cosseria, Ravenna e Sforzesca, e il Corpo d’armata alpino, sulle divisioni Julia, Tridentina e Cuneense.

Il Csir, che è stato rinforzato nei mesi precedenti ma che non ha mutato composizione, cambia ufficialmente denominazione in XXXV Corpo d’armata. Al Corpo d’armata alpino viene aggregata anche la divisione di fanteria Vicenza, priva dell’usuale reggimento d’artiglieria e con scarso inquadramento, che dovrà assolvere esclusivi compiti di presidio e di occupazione. L’armata viene così a totalizzare 229.000 effettivi circa (oltre tre volte il solo Csir) e nel corso dei mesi al fronte ha alle proprie dipendenze anche una serie di grandi unità tedesche, come il XXIX Corpo d’armata prima e il XXIV Corpo d’armata corazzato poi. A differenza di quanto avvenuto nel primo anno di guerra al fronte russo col Csir, che generalmente ha condotto una guerra aggressiva per lo più in avanzata, l’Armir giunge al fronte in un momento in cui, fatte salve alcune eccezioni, i profondi ripiegamenti strategici da parte avversaria e i puri e semplici cedimenti del fronte sono terminati. L’armata ha per lo più compiti difensivi e va ad inserirsi nel lungo schieramento misto fra i fiumi Don e Volga esattamente come le Armate rumene 3a e 4a e la 2a Armata ungherese. Esse hanno la sola funzione di difendere i fianchi delle forze tedesche migliori indirizzate verso est.

Da un punto di vista operativo e soprattutto logistico, l’impresa voluta da Hitler, con l’attacco simultaneo a Stalingrado e al Caucaso, è già allora da alcuni ritenuta insostenibile. Con l’avanzata di altre centinaia di chilometri nelle due direzioni, le linee di rifornimento e di comunicazione si allungano ancora di più, divengono meno efficienti e iniziano ad essere pure il bersaglio della lotta partigiana, che proprio nel corso del 1942 si intensifica e comincia a contribuire in modo fattivo alle operazioni dell’Armata rossa. Proprio nell’estate di quell’anno, il Comando supremo sovietico prende a progettare operazioni di carattere controffensivo più o meno vaste, volte a stornare le forze nemiche che attaccano Stalingrado e a creare delle teste di ponte oltre i fiumi, al fine di sfruttarle per ulteriori attacchi. In queste operazioni vengono coinvolte anche le truppe italiane, in particolar modo quelle del II Corpo d’armata, che subiscono ripetuti assalti sul Don fra la seconda metà di agosto e la prima di settembre. Tali scontri, convenzionalmente denominati dagli italiani «prima battaglia difensiva del Don», sono superati complessivamente con successo, benché alcuni episodi finiscano per palesare l’inesperienza di determinati reparti e rendano tesi i rapporti fra i comandi italiani e tedeschi. Sempre in quei giorni, presso Serafimovič (sul fiume Don), ha luogo il più consistente scontro avuto dagli italiani coi mezzi corazzati sovietici sino a quel momento. Sebbene respinti, i reparti sovietici hanno modo di conquistare alcune posizioni dalle quali ripartiranno in seguito con attacchi molto più importanti.

Fra il settembre e l’ottobre 1942, in un periodo di relativa stasi del fronte, l’8a Armata italiana riesce a completare lo schieramento sul Don, a fortificare le proprie difese e ad apprestare ricoveri per le truppe in prima linea. Da nord a sud, fra la 2a Armata ungherese e la 3a Armata rumena, vengono inserite le grandi unità italiane: nell’ordine il Corpo d’armata alpino, il II Corpo d’armata e il XXXV Corpo d’armata (ex Csir), oltre al XXIX Corpo d’armata tedesco (che in autunno arriverà ad avere alle proprie dipendenze solo divisioni italiane). Il gruppo Fronte del Don trae il proprio nome esattamente da questo schieramento, che rappresenta un momento particolarmente significativo e per certi versi paradigmatico della campagna di Russia. Le truppe alpine italiane, per inciso, vengono impiegate nei terreni pianeggianti russi come tutte le fanterie, così come i tedeschi hanno già fatto durante il primo anno di guerra. L’utilizzo degli alpini sul Caucaso, infatti, è solo un’ipotesi ed è lo stesso comandante dell’Armir, generale Italo Gariboldi, ad esigere che il Corpo d’armata alpino non venga distaccato dal resto dell’Armata. Gariboldi, d’altra parte, ribadisce il concetto – già più volte espresso da Messe nel 1941 – che le truppe italiane debbano essere utilizzate unitariamente, secondo il preciso volere dei vertici romani.

Nella seconda metà del novembre 1942, dopo un periodo di relativa quiete, ingenti forze sovietiche scatenano un attacco a nord e a sud di Stalingrado. L’azione sfonda il fronte in entrambi i punti e l’Armata rossa circonda nel giro di pochi giorni l’intera 6a Armata tedesca più diverse divisioni rumene. Numerosi altri reparti dell’Asse finiscono distrutti nel corso dell’operazione. È la prima fase di un vasto e articolato piano che nel giro di pochi mesi porterà l’Armata rossa a spazzar via quasi del tutto il fronte meridionale tedesco-sovietico. Con la seconda e terza fase è la volta dell’Armir e di ciò che rimane degli eserciti «satelliti» della Germania. Dall’11 al 15 dicembre i reparti italiani sul Don vengono continuamente attaccati con forze non numerose, ma continuamente ricambiate. Fra il 16 e il 17 l’Armata rossa sfonda il fronte anche con reparti motocorazzati e penetra nelle retrovie italiane, scatenandovi il panico. Nei giorni seguenti ben 6 delle 10 divisioni italiane al fronte iniziano un lungo e difficile movimento retrogrado al fine di ricostruire una linea difensiva molto più indietro del Don (dove il nemico è già passato ma non si è stabilito). Il macroepisodio va sotto il nome convenzionale di «seconda battaglia difensiva del Don»: in pieno inverno russo, senza precisi ordini dall’alto, in mancanza di mezzi adeguati e in mancanza anche di una forma mentis da ritirata, sotto gli attacchi ripetuti delle unità sovietiche, le divisioni di fanteria italiane si sparpagliano nelle retrovie e subiscono perdite gravissime.

Frattanto, a metà del gennaio 1943, tutte le unità alpine e la divisione Vicenza si trovano in linea sul Don, con scarsa consapevolezza di quanto sia accaduto in quelle settimane pochi chilometri più a sud. Fra il 13 e il 14 gennaio i sovietici attaccano e sfondano il tratto di fronte a nord degli alpini (dove si trovavano gli ungheresi) e a sud, dove alcune unità dell’Armir e il XXIV Corpo d’armata corazzato tedesco hanno tentato di ricostruire una linea di difesa. L’intero Corpo d’armata alpino si ritrova così sorpassato dal fronte ed è costretto a ripiegare, peraltro molto in ritardo, sostanzialmente a piedi e sotto gli attacchi nemici. Al Corpo d’armata alpino, che va assottigliandosi di giorno in giorno, si uniscono brandelli di unità tedesche, rumene e ungheresi, nonché i resti del XXIV Corpo d’armata corazzato. Molti di questi uomini hanno perso il proprio reparto e hanno abbandonato le armi. In tale contesto, con un enorme numero di soldati ormai non più costituenti forza combattente, la gestione della ritirata diviene quasi impossibile e gli attacchi dei partigiani locali si fanno più numerosi e arditi.


Fra la fine di gennaio e l’aprile 1943, i resti di quello che è stato l’Armir vengono progressivamente riuniti in zone di raccolta fra l’Ucraina e la Bielorussia. Il loro stato, in genere pietoso per le avverse vicende e per la mancanza di inquadramento, fa sì che gli uomini tendano ad assaltare i magazzini di sussistenza o a barattare corredo e armi per cibo con la popolazione civile. La sistemazione in zone note già da mesi per essere capillarmente presenziate da partigiani sovietici (come l’area di Gomel) rende il loro riordino ancor più difficoltoso e i dissapori coi tedeschi, iniziati già durante il ripiegamento di dicembre, si fanno sempre più numerosi e più gravi. I vertici romani prendono in considerazione l’idea di riarmare almeno uno dei tre corpi d’armata presenti al fronte, ma alla fine, dopo dopo un difficile periodo di accordi infruttuosi coi tedeschi, essi richiamano dallo scacchiere russo tutte le unità di terra e d’aria presenti. I reparti riaffluiscono lentamente in patria fra la metà di aprile e le settimane seguenti; alcuni, in specie quelli di natura logistica e di presidio, rimangono al fronte anche oltre, fino all’estate 1943.

Quando si contano le perdite, all’appello dei 229.000 uomini dell’Armir mancano circa 85.000 soldati, senza tener presenti tutti i materiali e l’armamento distrutti o rimasti sul campo di battaglia. Il dramma umano e militare cui è andata incontro l’armata è persino più grave di quanto non sembri, stando ai freddi numeri. Una parte significativa delle truppe in oggetto, infatti, non si trova neanche in linea sul Don ed è interessata dalla ritirata solo in seguito, quando il crollo si generalizza. È pressoché impossibile affermare con certezza quanti dei circa 85.000 soldati italiani che non tornano dall’Urss muoiano sul campo e quanti cadano in mano nemica ancora in vita. Le perdite in battaglia e soprattutto nella ritirata sono sicuramente altissime, stando anche alle parole dei soldati che la vivono dall’interno. Fra coloro che cadono prigionieri, molti muoiono indubbiamente nei primi giorni, quando il freddo e la mancanza di un’alimentazione sufficiente da parte sovietica peggiorano una situazione generale già gravissima.

Il numero di coloro che vengono fatti prigionieri ancora in vita e di coloro che muoiono in prigionia è da subito materia di congetture (anche a sfondo politico) e lo sarà sempre. Solo poco più di 10.000 uomini che hanno fatto la campagna di Russia tornano in Italia fra il 1945 e il 1946, più qualche decina di reduci che finiranno il rimpatrio entro il 1954. La prigionia di guerra in Urss è un’esperienza in molti casi spaventosa per quanto riguarda i primi mesi, che segna indelebilmente molti soldati che hanno già vissuto l’esperienza limite della ritirata. Anche quando il trattamento dei prigionieri migliorerà sensibilmente, verso la metà del 1943, le condizioni della prigionia e i tentativi di rieducazione politica messi in atto dalle autorità sovietiche lasceranno un ricordo quantomeno negativo dell’Urss, generalmente diverso da quello di coloro che sopravvivono alla sola ritirata. In questo contesto, fioriranno nel dopoguerra e nei decenni a venire storie su italiani mai tornati, che sarebbero stati trattenuti come lavoratori coatti dal regime sovietico o come elementi ancora da rieducare.

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